Meditiamo sulla Parola – XIV Domenica tempo ordinario anno C

Il nuovo testamento così delinea la figura del discepolo dei primi tempi: «Ogni scriba divenuto discepolo del regno è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Nella nostra storia c’è il nuovo e l’antico, il passato e il presente: la nostra vocazione è costruire l’unità, che comporre una unità che non è uniformità.

I primi cristiani, le prime chiese stando nel mondo non hanno predicato né proposto la fuga, il disprezzo, il distacco, l’indifferenza.

Hanno messo in guardia da tutto ciò che seduce e rovina. È utile un esempio: la chiesa di Giovanni, pur essendo marcatamente spirituale, non si chiude ma prende posizione, prende le distanze dinanzi a un mondo che rifiuta il Cristo, che spesso assume una situazione di chiusura verso colui che è il Veniente, l’inviato.

Le comunità non sono fuggite di fronte al mondo perché animate dalla forza del Vangelo.

Chi incontra il Risorto trova la forza per superare ogni ostacolo.

Non dimentichiamo: il cristianesimo inizia con un annuncio preciso, il kerigma: Gesù di Nazaret è il Risorto, è il Vivente.

Ciò che ci sostiene nella compagnia degli uomini non è una ideologia come, per esempio, una non definita fratellanza universale ma la risurrezione (Paolo dice: «Se Cristo non è Risorto vana è la nostra speranza»).

La resurrezione ci fa guardare al mondo con un’assoluta speranza.

Noi non guardiamo alla terra come al luogo da cui fuggire e il cielo da accogliere come un rifugio in cui ripararsi.

Il credente non è l’uomo delle evasioni ma sta là dove si lotta per vincere il male, la fame, la malattia, la povertà, l’ignoranza.

Cieli e terra nuova non costituiscono una utopia ma una possibilità realizzabile.

Tutta la Bibbia è interessata a questo problema, in modo particolare la Genesi.

«Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse».

Troviamo qui quattro verbi che trasmettono l’essenziale della vocazione dell’uomo.

«Dio prese l’uomo»: vuol dire che in qualche modo lo riserva a sé. Tutto questo significa che Dio sceglie perché ama ed ha per ciascuno un progetto preciso.

«Lo pose nel giardino»: vuol dire stare con pienezza e autonomia, il giardino ove vivere in pienezza e autonomia.

I verbi “coltivare e custodire” indicano prima di tutto il lavoro manuale.

“Coltivare” comporta lavoro, non solo quello fisico. Per ognuno c’è un compito, un lavoro, un giardino che costruisce la nostra umanità. Il lavoro, il giardino indica la nostra professione concreta, la nostra vocazione fondamentale. Si tratta di vigilare, fare attenzione, essere sentinella.

S. Benedetto diceva: “Conserva l’ordine che l’ordine conserverà te”.

Siamo fragili e più che l’amore che nasce dalla croce, ci attira la forza del peccato. C’è sempre un giardino ma non ci sono sempre fiori. È possibile la disarmonia e la de-creazione.

Dobbiamo resistere alla tentazione di cercare un altro giardino; imparare a dire si, a dire amen.

Dobbiamo obbedire con cuore libero.

Il sacro, ciò che dà gloria a Dio, prima di tutto si realizza nel quotidiano.

«Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il sapore con che cosa si può rendere salato? A null’altro serve che essere gettato via e calpestato dall’uomo». Il sale è efficace, dà sapore. Il Levitico chiama il sale “sale dell’alleanza”. Costante l’ammonizione a non diventare insipidi.

«Voi siete la luce del mondo, non può restare nascosta una città collocata sopra un monte».

Ciò che conta non è costruire un mondo cristiano ma essere cristiani nel mondo.

Non si tratta di essere indifferenti, di vivere con un freddo distacco., ma di avere un comportamento dinamico pieno di realismo e di speranza, una speranza che non sia mai fuga o indifferenza.

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