
Meditiamo sulla Parola – XXI Domenica tempo ordinario anno C
I Vangeli riportano molte domande rivolte a Gesù: Sono pochi o molti quelli che si salvano? La porta è aperta a tutti o a pochi? È possibile riscattarsi anche all’ultimo momento? Nell’ultimo giorno Cristo ci riconoscerà? Il Signore perdona sempre?
Molte volte manca la risposta perché la domanda posta in un determinato modo motiva solo risposte irrilevanti. Colui che domanda è «un tale», un anonimo, il suo nome non è ricordato.
Questo tale si preoccupa esclusivamente della sua salvezza. Manca una prospettiva universalistica presente nella prima lettura: «Io verrò e radunerò tutte le genti e tutte le lingue».
Gesù supera discussioni legate a teoremi quantitativi e le pone su un terreno qualitativo, in una ottica diversa. Non si tratta di essere pessimisti (vedere il bicchiere mezzo vuoto) ma di un attento e vigilante realismo: essere salvi non è cosa scontata.
Per entrare attraverso la porta stretta è richiesto uno sforzo. La sequela è radicale, esigente, fatta di tanti passi che richiedono fedeltà, abbassamento e perseveranza. L’essere “stretta” dice scomodità, fatica, disagio.
Gesù precisa: c’è una porta stretta, ma c’è anche un gran numero di altre porte, di altre vie larghe, spaziose e inconcludenti. I colori della narrazione sono netti, non ammettono compromessi, non conoscono sfumature o mezze misure: dentro o fuori, salvati o condannati, festa o pianto e stridore di denti. Si tratta di una parola definitiva senza possibilità di appello.
L’uomo è di fronte a un bivio: la via che conduce alla vita e quella che conduce alla perdizione.
C’è l’albero che produce frutti buoni e quello che produce frutti cattivi, c’è la casa edificata sulla roccia che rimane salda, e quella edificata sulla sabbia.
La porta stretta può essere provvidenziale se mette a nudo i nostri limiti, le diverse misure, i vari conteggi. Può riportarci all’essenziale: essere con lui.
La porta dice “passaggio”, possibilità di “entrare ed uscire”. Se lascia solo entrare è una prigione.
Sappiamo puntare gli occhi anche in alto? Cosa fare se muore l’entusiasmo iniziale? Cosa fare quando le forze vengono meno?
Il vangelo ribadisce: la porta non è un portone. Un allenamento costante permette di riconoscere che noi non siamo il centro e la misura. C’è sempre il rischio di sbagliare e affaticarsi invano.
Nessuno si salva con le proprie forze. Anche Gesù è stato risorto (passivo divino)
La vicinanza, la familiarità con Cristo non sono sufficienti per infilare la porta giusta. Non si può vivere tranquillamente di rendita. Non basta quando abbiamo appreso nell’infanzia; è la scelta di vita e di fede autentica che spalanca le porte della festa.
Quando si parla di sacrificio pensiamo ad una mutilazione, ad una rinuncia, mentre il termine deriva dal latino: “sacre facere” che significa fare/agire in maniera sacra. Si tratta di trasferire la liturgia del tempio nella liturgia quotidiana.
Non si tratta di galleggiare, ma di scavare a fondo, creare spazi, coltivare inquietudini, non sentirci mai arrivati: una cosa so, so di non sapere!
Chiediamoci: È la porta stretta o noi siamo obesi?