Meditiamo sulla Parola – V Domenica di Quaresima anno A

La società contemporanea rimuove sistematicamente la morte. La nega, la nasconde, in ogni modo.

In una situazione di indifferenza morale è difficile distinguere il bene dal male. Una civiltà definita “omicida” non sa distinguere ciò che è per la vita e ciò che è per la morte. Anche le “ultime realtà” sono ridotte ad una dimensione privata.

Nonostante il silenzio sul tema, le immagini di morte incalzano soprattutto nei mezzi di comunicazione, dove il macabro serve ad innalzare l’indice degli ascolti. La morte non ha più niente di sacro e di tremendo. È spietata perché non consente alcuna pietas.

Di fronte ad un evento, anche molto grave, non c’è spazio per il dolore verace, nel migliore dei casi ci si limita ad una semplice, passeggera emozione. Importante non è la realtà, ma la finzione. Crediamo che la scienza e la tecnica sono molto più efficienti rispetto all’umana empatia.

La morte mette in crisi pensieri, affetti e sentimenti. Sottopone la fede ad una severa verifica, ad un vero e proprio collaudo. Si tratta di assumere, supportare il dolore degli altri e condividerlo fino alla fine, visceralmente.

Enea al padre: “Su, diletto padre, sali sul mio collo; ti sostengo con le spalle e il peso non mi sarà grave”.

Bisogna tener presente: non tutto il male appartiene al passato. Il nostro passato non va demonizzato, in esso vi è sempre qualcosa da riprendere. Nel presente, invece, c’è sempre qualcosa che chiede di essere superato.

Nell’antichità le epidemie, ogni tipo di miseria, la carestia, schiacciano l’uomo senza difesa. Basta leggere le scene manzoniane della peste per riflettere sulla nostra caducità.

Parliamo molto della solitudine del malato, ma dimentichiamo che la morte di per sé implica già solitudine.

La sequenza di Pasqua canta: “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa”.

Per agire contro la morte, occorre creare relazioni sane, superare l’individualismo, fare degli altri un punto di riferimento. Bisogna con-soffrire con chi è nella sofferenza. Vivere significa sottrarsi all’impero della morte.

  1. Hammarskjold (segretario delle nazioni unite dal 10 aprile 1953 al 18 settembre del 1961): “Se tu dessi tutto fuorché la vita, sappi che non hai ancora dato nulla”.

La morte più insidiosa è quella che sta dentro di noi. Il caso serio non è il prolungamento indefinito della vita, ma il suo significato e la sua pienezza. La vita è bella non tanto per la sua durata, ma per la sua qualità.

Non occorre dare giorni alla vita, ma dare vita ai giorni.

Eppure, l’uomo, in quanto sociale e socievole, senza legami è già morto. I Padri solevano dire: cristiano solo, cristiano nullo.

Galimberti: “Educati come siamo alla cultura dell’applauso, non sappiamo neanche dove sta di casa la cultura dell’ascolto. Distribuiamo farmaci per contenere la depressione, ma mezz’ora di tempo per ascoltare il silenzio del depresso, non lo troviamo mai. Con i farmaci, utili senz’altro, interveniamo sull’organismo, sul meccanismo bio-chimico, ma la parola strozzata dal silenzio è resa inespressiva da un volto che sembra di pietra. Chi trova il tempo, la voglia, la pazienza, la disposizione per ascoltarla? “

Ha ancora senso, è praticabile la compassione? Oppure domina incontrastata l’indifferenza, la rimozione, l’abitudine e la paura? Anche la carità è stata “cosificata”: è qualcosa da fare, un oggetto più che soggetto, divenendo solo un problema di efficacia ed organizzazione.

Non dobbiamo diventare amici della morte ma restare amici della vita. Cristo insegna: ogni dolore può essere superato se riconosciuto, ascoltato, accolto.

“Lazzaro, vieni fuori!”, è la parola che ogni credente ascolta emergendo dal fonte battesimale, passando da un’antica vita ad una nuova esistenza. “Lazzaro, vieni fuori” è la parola che ogni credente ascolterà alla fine della sua vita.

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