
Meditiamo sulla Parola – Domenica della Palme e della Passione – anno B
La liturgia della Domenica delle Palme inizia con il brano dell’entrata di Gesù in Gerusalemme. Questo brano non viene letto all’interno della celebrazione, ma all’inizio per preparare la processione. Scena tenerissima, Gesù accompagna i suoi discepoli a Gerusalemme per la pasqua ebraica e lui sa invece che va verso la sua fine, da quel momento infatti assume un aspetto profetico perché tutto quello che dirà si avvererà.
Prima di intraprendere la via dolorosa che lo porterà all’agonia e alla morte, si reca a Betania, dai suoi amici, come se volesse fare il pieno di quella gioia che rallegra il cuore, per poter affrontare l’ultima prova. Dalla mensa di Betania a quella con i suoi discepoli. Nella prima abbiamo contemplato l’amicizia che dona la vita, l’amore corrisposto, reciproco, gratuito, generoso. Nella seconda – oggi –, invece, meditiamo l’amicizia infranta, l’amore tradito. È qui che inizia l’ora dell’agonia, il turbamento, la tristezza di Gesù. Uno con il quale ha condiviso tutto, che mangia nel suo stesso piatto, che ha lasciato tutto per seguirlo, ma che ora, per qualche ragione, ha deciso non solo di lasciarlo, ma addirittura di tradirlo, di consegnarlo in pasto ai lupi. Oggi, per noi, è il momento di mettere il nostro capo sul petto di Gesù, il nostro amato amico, per “ascoltare” il suo cuore, per “sentire” il suo turbamento, la sua sofferenza, la sua amarezza a causa del pensiero di essere tradito e rinnegato. È il momento di con-patire con Cristo. Come afferma Gamberini, infatti, la vera morte – ancor più dolorosa di quella fisica – è quella in cui vengono meno tutte le relazioni: quella con gli altri, quella con se stessi e quella con Dio. Oggi contempliamo il venir meno della sua relazione con gli altri, la sua angoscia e il suo turbamento causato dalla consapevolezza che uno dei suoi lo tradirà, lo consegnerà alla morte e che chi promette di dare la sua vita per Lui lo rinnegherà o lo abbandonerà, perché nessuno può farci nulla. È iniziato il suo Calvario. È turbato ed è solo. Ora può solo confidare nel Padre. Sia Giuda che Pietro (con i quali si possono identificare anche gli altri, specialmente nel vangelo di Marco), infatti, consegnando Gesù, preparano l’agnello per il sacrificio, per la Pasqua. Anche quello di Pietro, in un certo senso, è un tradimento (dal latino tradere = consegnare). Essi pensavano che stando con Gesù, il Messia potente che compie miracoli e prodigi, avrebbero raggiunto la gloria, l’onere, il successo. Ma Gesù scombina i piani, perché percorre un’altra via, quella della debolezza, della croce, del fallimento; e questo loro non lo capiscono, tanto meno lo accettano. Ecco perché Gesù dice che rimarranno scandalizzati: lo “scandalo”, infatti, è una pietra di inciampo e Gesù, in questo modo, sta diventando uno “scandalo” per i suoi apostoli perché sta infrangendo/ostacolando i loro progetti, le loro attese, le loro illusioni. Poco dopo, però, incrociando nel cortile lo sguardo di Gesù, che lo fissava con amore e infinita misericordia, si pente profondamente, versando lacrime amare. Finalmente, comprende che non lui salverà Cristo ma Cristo salva lui. Ora davvero è pronto a morire per Lui, come Lui e con Lui. A differenza di Pietro, però, Giuda alla fine non si pente e, quindi, non si apre al perdono. Il peccato più grande di Giuda non è stato quello di aver tradito, ma quello di aver voluto espiare il suo errore/male da solo, senza uscire da se stesso per aprirsi ad accogliere il perdono, come, invece, ha fatto Pietro. Gesù offrendo Se stesso ai Suoi discepoli, nel pane e nel vino, li rende già ora partecipi del banchetto escatologico, della comunione con Dio. Perciò, il comando di ripetere il gesto ‒ «fate questo in memoria di me» ‒ non si riferisce alla cena pasquale in generale, ma soltanto a ciò che essa simboleggia e anticipa, e cioè l’evento salvifico. In altre parole, Gesù sta dicendo che dopo la Sua morte e risurrezione Egli sarà ancora presente nel pane e nel vino eucaristici, nei quali continuerà a donarsi come nostro cibo e nostra bevanda, come fonte di benedizione, di vita e di comunione con Dio.
Nel Getsèmani (cf. Mc 14,32-42 par.) ‒ dove il Figlio di Dio inizia il doloroso cammino incontro alla morte ‒, troviamo un Gesù spaventato e vulnerabile: sente «paura ed angoscia. Gesù non va incontro alla morte in modo freddo e senza emozioni, ma ci va come un vero uomo. Dopo essersi rimesso nelle mani del Padre al Getsèmani, ora si consegna – consapevolmente e liberamente – nelle mani degli uomini per compiere la Sua (del Padre) volontà. Egli è il Giusto sofferente che entra nella via dolorosa della passione per aver liberamente accettato la volontà di Dio. Perciò, si consegna nelle mani degli uomini, lasciandosi prendere come un oggetto e si lascia maltrattare, insultare, schernire, uccidere; accetta di restare solo, abbandonato dagli uomini e, per qualche istante, anche da Dio, quando sulla croce grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34). Al grido sulla croce Dio non risponde. Dopo l’abbandono dei discepoli, ora Gesù fa esperienza del silenzio di Dio, dell’assenza del Padre. Questa è la vera morte ‒ come anticipato martedì ‒, dove vengono meno tutte le relazioni: quelle con gli altri (solitudine), con se stesso (angoscia) e con Dio (silenzio). «“Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio, perché mi hai abbandonato?”» (Mc 15,34; cf. Mt 27,46). Richiama l’inizio del Sal 22; è il grido d’aiuto, rivolto a Dio, da chi si trova nell’affanno e sperimenta con forte dolore la Sua assenza. Il grido di Gesù, non è un grido di disperazione ‒ come non lo è il Sal 22 ‒, bensì espressione della sua piena e totale fiducia nel Padre e, al contempo, certezza dell’esaudimento, della risposta divina di salvezza per Sé e per i fratelli, il culmine dell’Amore di Dio per noi.
La morte di croce è la morte del maledetto da Dio e dagli uomini. il supplizio estremo inflitto a chi è ritenuto nocivo alla società umana. Fine fallimentare, scandalo, fine di una fede in lui come messia e figlio di Dio….Eppure per la nostra fede è proprio il crocifisso che ci ha raccontato Dio, la croce è il luogo per eccellenza in cui possiamo conoscere Dio, il luogo dove Dio è stato masssimamente narrato da suo figlio. Gesù ha trasformato uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. La morte in croce è l’atto che ricapitola l’intera sua esistenza spesa nella libertà e nell’amore. La croce quindi è compimento (tutto è compiuto-Giovanni) più che fine, e il suo linguaggio è ama, perdona, prega. Guai se pensiamo che il Padre ha dimenticato il figlio, il Padre non poteva, intervenire, perché essendo Gesù uomo, la sua umanità era mortale e la sua vita di giusto era vita perseguitata; nessun fato, nessun destino sta su Gesù, solo la necessità umana che un uomo giusto non si sopporta e si toglie di mezzo. Nel volto di Gesù deposto dalla croce risplende già una luce nuova, non è il volto di un vinto ma di un vincitore. Mentre il suo corpo scende dalla croce, tutta l’umanità ascende verso nuove possibilità, da ora la trasformazione dell’uomo dipende solo da lui stesso.
E una prima rivelazione di questa trasformazione che lui ha iniziato a realizzare la vediamo nel centurione romano. Un uomo aduso ad esercitare violenza e a guardare in faccia la morte, dopo aver visto spirare in quel modo Gesù, non può fare a meno di confessare veramente questi è il figlio di Dio. Che cosa lo ha convertito, non l’esibizione della forza, non l’esercizio di un potere, ma davanti a lui vede un uomo denudato, inchiodato ad una croce, straziato, proprio questa situazione di totale abbandono, di debolezza estrema, vissuta con amore e dignità, lo convince. È lui il vero vincitore e sarà quell’amore indifeso ed esposto a cambiare il suo cuore, a strapparlo al male e a generarlo a vita nuova.
Il brano termina con la sepoltura. Un innocente è stato sacrificato, ma Dio rovescia questa tragedia e ne fa speranza. Quella tomba che viene così minuziosamente chiusa si spalancherà. Resurrezione non nell’ultimo giorno, bensì ora interessa il nostro presente e non solo il futuro. È un grande evento di luce, trasformazione del corpo. Questa trasformazione avverrà solo se avremo conosciuto, amato e lasciati coinvolgere nella vita di Gesù. tutto questo non risponde a nessun processo solo all’amore.
Don Tonino Bello – Arriva la Pasqua, frantuma il nostro peccato, le nostre disperazioni. Ognuno di noi ha il suo macigno, una pietra che opprime, macigno della solitudine, della miseria, della malattia. Pasqua sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi. Il Signore è risorto proprio per dirvi che di fronte a chi decide di amare non c’è morte che tenga.