Meditiamo sulla Parola – IV Domenica di Pasqua anno B

Ἐγώ εἰμι: Io sono. Con queste parole, nel vangelo di Giovanni, Gesù si presenta scandalizzando i giudei: solo Dio si è potuto rivelare a Mosè sul monte Oreb dicendo di sé : “ Io sono colui che sono” (Es 3,14-15). Ma è proprio la divinità di Gesù che Giovanni intende rivelare, quella divinità che alle orecchie dei giudei suona come una bestemmia e li condurrà allo scontro estremo con Gesù.

Mentre sull’Oreb Dio aveva mantenuto la sua inafferrabilità con quella autorivelazione che svela e nasconde allo stesso tempo, Gesù si fa vicino all’uomo, rivelando “cosa è” per lui: è “pane della vita” (Gv 6,35); “luce del mondo” (Gv 8,12); “porta delle pecore” ( Gv 10,7); “resurrezione e vita” (Gv 11,25); “via, verità e vita” (Gv 14,6); “la vera vite” (Gv 15,1). Nel brano che  viene proclamato in questa IV domenica di Pasqua si presenta come “il pastore” (Gv 10,11).

Di pastori Israele ne aveva avuti tanti, e, in molti casi, pessimi. È per questo che Gesù si presenta non come un pastore qualsiasi, ma come quello “kalòs”, termine greco che, interpretando la cultura ebraica, intende unire bontà e bellezza. Anche noi, oggi, diciamo “una bella persona” per indicare in qualcuno non solo e non tanto una bellezza esteriore, ma soprattutto quella interiore, morale, di sentimenti, di comportamenti. “Kalòs” può essere tradotto anche con “vero”, “ideale”, “autentico”. In definitiva Gesù si presenta come “il” pastore, quello buono-bello, il “vero” pastore che Israele sta aspettando. Un pastore del tutto atipico, perché ama tanto le sue pecore da rinunciare alla sua stessa vita per loro. Non è un mercenario, un salariato che per contratto deve guardare le pecore, ma ha tutto il diritto di salvare la propria vita se la venuta del lupo può metterla a rischio. A nessun lavoratore si può chiedere di mettere a repentaglio la vita per il lavoro. Le cronache di questi giorni, anzi, ci sollecitano a tutelare maggiormente il diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Non possiamo dunque biasimare il mercenario: fa quello che deve. Ma Gesù si pone su un piano che è diverso da quello del mercenario, ed anche da quello di un qualsiasi pastore, che comunque cura le pecore per un suo interesse, per prenderne il latte, la lana, addirittura la vita degli agnelli.

Gesù è un pastore che non prende: dà. Dà tutto, fino a morirne. Conosce le sue pecore perché le ama. È sempre l’amore che precede  e permette la conoscenza, non viceversa come saremmo portati a pensare. E quella di Gesù è una conoscenza-amore che lo unisce al suo gregge così come lo unisce al Padre, in un flusso continuo  che passa dal Padre al Figlio e da questo al suo gregge per poi tornare al Figlio e di lì al Padre.

Solo chi ama il gregge sa che non è fatto per vivere chiuso in un recinto ma nei pascoli erbosi della libertà. È fuori da ogni recinto che Gesù, il pastore vero, vuole riunire il suo gregge, in cui sono chiamate a confluire pecore di varia provenienza, tenute insieme da un unico richiamo: la voce del Pastore. Se si segue la voce del Pastore, si superano tutti i recinti che noi uomini creiamo per paura o per egoismo, per una ingannevole ricerca di identità o perché è meno rischioso brucare in uno spazio limitato e da sempre conosciuto anziché avventurarsi nella fatica d’incontrare l’altro.

C’è, in questo brano, un richiamo fortissimo all’unità: un solo gregge, un solo pastore è l’orizzonte della storia umana, storia da affrettare con tenacia e coraggio, perché il rischio più grande che Giovanni ci lascia intravedere nella figura del lupo non è che il lupo divori le pecore, ma che le “disperda”. L’unità vale addirittura più della vita stessa.

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