
Meditiamo sulla Parola – XXIV Domenica del tempo ordinario anno B
Nel Vangelo di Marco (anno B) siamo ad una svolta geografica. Gesù lascia la Galilea (nord della Palestina) e si dirige verso la Giudea (sud, dove si trova Gerusalemme). Si tratta di un cambiamento parziale perché termina una fase della sua opera, il ciclo dei grandi segni nei quali il Rabbi di Nazaret fa capire visivamente che il Regno di Dio, la speranza degli uomini, è presente.
Ecco perché alla fine di questa fase Gesù interroga i suoi discepoli. Fa domande sulla vita quotidiana e chiede loro cosa pensano di lui. E la risposta verbale, quella dove anche noi siamo preparati, è ineccepibile: “Tu sei il Cristo (= Messia)”. Risposta giusta. L’amore che vince l’odio, la speranza degli umili, dei tagliati fuori, degli scartati, “si è fatta carne”. Il Signore fa vedere che cosa c’è dietro questa affermazione. Si tratta però di un mutamento radicale nel modo di pensare al Messia: “Cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”. Molto chiaro. Nessuna ambiguità. Pietro, che ha una idea messianica diversa, con un fare paternalistico si mette a fargli raccomandazioni. Poi lo prende in disparte, lo rimprovera, lo richiama ad essere un po’ più normale, a stare con i piedi sulla terra, ad avere un po’ di equilibrio, di buonsenso.
Gesù ha una reazione violenta verbale: “Lungi da me, Satana!”. Pietro è paragonato all’avversario di Dio. C’è una ragione: “Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Chi è Cristo per me quando agisco? Chi è Cristo per me riguardo la mia sfera sociale, affettiva, economica, quando ha a che fare con il lavoro? In tutto questo chi è Gesù per me? È in questo piccolo e provvisorio elenco di settori che si inserisce la croce: “Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi stesso, prenda la sua croce e mi segua”. La croce non è una generica sofferenza, ma è un patire che deriva dallo stare dietro a Cristo, dallo scegliere nel denaro, nella politica, nella carriera e altro, Lui.
Questo è stare nella croce.
“Nulla anteporre all’amore di Cristo”; cosi san Benedetto nella Regola per i suoi monaci (cfr. RB 4,21; 72,11). Seguire Gesù significa sempre pagare qualche cosa nelle differenti realtà quotidiane. Non esiste una sequela a basso prezzo. Oggi è di moda una fede accomodatizia, potremmo dire “à la carte”. Come al ristorante ci viene messa tra le mani la carta del menù e noi scegliamo ciò che aggrada, così si combina una fede che seleziona tutto quello che è meno offensivo, meno specifico e impegnativo.
Alcune correnti spirituali miscelano messaggio e massaggio, yoga e yogurt, l’eucaristia e la dieta, la confessione e la seduta psicanalitica. Questa ricerca del benessere dissolve il credere in un pulviscolo dorato che ignora la radicalità della fede.
Occorre vigilanza per non svuotarla, non banalizzarla, neutralizzando la sua forza dirompente. Non facciamo di quel più di Gesù (la sua donazione all’umanità) il meno del mondo.