
Vangelo e denaro: quale relazione? Riflessioni per il periodo di Avvento – III parte
Gesù è nato povero e questa scelta deve interrogare ogni cristiano sul suo rapporto con il denaro e la ricchezza. Spesso Vangelo e soldi sono percepiti come due realtà da tenere distinte e separate. Ma se il lieto annuncio deve permeare tutta la nostra vita, non può rimanergli impermeabile il settore economico.
“Cosa dobbiamo fare?” chiedevano le folle a Giovanni Battista nella pagina evangelica della scorsa domenica. Anche noi dovremmo chiedercelo, e la risposta possiamo cercarla nelle Scritture dove, a dispetto delle nostre pretese di usare l’aggettivo “mio” nel significato di “possesso”, l’unico vero proprietario è il Signore. Egli pone l’uomo nel giardino di Eden solo come custode del creato, e nel capitolo 25 del Levitico rivendica “la terra è mia”.
L’accumulo delle ricchezze è condannato nella Bibbia sulla base di due motivazioni. La prima, sapienziale, riguarda il pericolo che le ricchezze prendano il posto che nella vita del credente può essere occupato solo da Dio.
La seconda, di tipo sociale, vede nelle ricchezze il frutto di ingiustizie perpetrate a danno del povero. E, ricordandoci che il Signore si schiera sempre dalla parte del misero, indica anche a noi la scelta giusta da fare.
Quali principi possiamo allora trarre dal messaggio biblico per orientare le nostre scelte in campo economico? Il teologo Enrico Chiavacci ne evidenzia due: 1) Non cercare di arricchirti; 2) Se hai, hai per dare.
“Non cercare di arricchirsi” comporta la rinuncia a trarre il massimo profitto dalle proprie attività economiche, limitandosi ad ottenere solo quanto basta ad una vita dignitosa. È necessario non uniformarsi all’imperativo della nostra società che spinge all’«avere per avere ancora». L’«avere di più perché è di più» rappresenta il motore che porta ad investire ricchezze perché producano altra ricchezza, in una spirale che aumenta all’inverosimile il divario fra i ricchi e i poveri.
Seguire Cristo è incompatibile con attività esclusivamente speculative e finanziare; ci chiede di controllare in maniera attenta che, investendo i nostri soldi, essi non siano usati per scopi eticamente discutibili; dovrebbe indurci a scegliere la professione non con il criterio del massimo reddito possibile, ma come, compatibilmente con le nostre inclinazioni, possiamo meglio servire il prossimo con il nostro lavoro.
Il secondo principio, “Se hai, hai per dare”, ci porta a vedere, nei beni che sono nella nostra disponibilità, una occasione di condivisione. Quanto eccede il necessario per una vita dignitosa dovrebbe essere messo a disposizione di chi è in difficoltà. Pagare le tasse da atto di obbedienza alle leggi dello Stato dovrebbe trasformarsi in un dovere morale di giustizia verso chi non ha le nostre possibilità, facendoci percepire il lavoro come dedicato non solo a noi e alla nostra famiglia ma- almeno in parte, tramite le tasse- anche a chi il lavoro non lo ha o non può svolgerlo.
Attraverso comportamenti economici coerenti con il vangelo abbiamo l’occasione di testimoniare la nostra fede e la fondata speranza che la conversione anche in questo settore dell’attività umana possa condurre ad un progressivo cambio di mentalità e alla modificazione delle strutture economico-finanziarie che oggi generano una scandalosa disuguaglianza.
L’uso che facciamo del nostro denaro parla di noi e dice in Chi o in cosa crediamo.