
Meditiamo sulla Parola – II domenica dopo Natale anno C
Gv 1,1-18
Il prologo di Giovanni è una delle pagine più dense di teologia dell’intero vangelo, risulta pertanto piuttosto arduo farne una esegesi che sia, anche in minima parte, esaustiva, sceglieremo, perciò, di meditare solo su alcune parti fondamentali del testo.
Subito il lettore viene colpito dall’assonanza con il primo capitolo della Genesi, sia per forma che per sostanza: GENESI: “In principio Dio creò il cielo e la terra… Dio disse”.
GIOVANNI: “In principio era il Verbo…e il Verbo era Dio”.
Ecco, “Dio disse”, “dire” è grammaticalmente un verbo, cioè indica un’azione che si compie, in questo caso, addirittura, un verbo che crea; nel momento stesso in cui viene pronunciata, la parola di Dio genera ciò che dice, chiama all’esistenza, alla vita ciò che prima non era.
In Giovanni quello che noi traduciamo “verbo” è scritto “logos” (e in ebraico corrisponde a “davar”) una parola che nella filosofia greca ha due principali significati: pensiero e parola. Dice E. Bianchi “…il primo è come un discorrere interiore usando la ragione; la seconda è l’espressione, la manifestazione del primo che in questo modo si fa concreto.”
Tutto ciò per dire che la creazione è pensata da Dio per un infinito amore e il suo pensiero crea e chiama alla vita. Questo pensiero creante, al versetto 14, compie un nuovo, enorme miracolo: si fa carne, si riveste della realtà dell’uomo-creatura per condividerne la sorte, i limiti, le difficoltà, per conoscerlo intimamente in tutti i suoi fallimenti e le sue potenzialità, per spiegare alla creatura il vero volto del Padre deturpato da secoli di religioni e culti che lo avevano travisato, così da restituirci il senso pieno, l’essenza vitale dell’originale progetto del Creatore sull’universo e sulla storia.
Più avanti, il testo greco non dice, come nella traduzione riportata qui sopra “…venne ad abitare in mezzo a noi”, ma “ha montato la sua tenda, ha fatto la sua casa tra noi (eschénosen en umin)” e per la precisione il verbo viene da una parola che indica un riparo fatto di rami verdi o di pelli e richiama il tempio mobile che il popolo di Israele, nei quaranta anni di esodo nel deserto, allestiva durante le soste per la Santa Arca. Secondo quello stesso modello viene poi pensato e costruito il tempio di Gerusalemme, l’unico posto riconosciuto degno di dare dimora a Dio in terra. Ma qui non di capanna o di tempio di pietra si tratta, qui si parla del corpo stesso dell’uomo che viene riconosciuto come capace di ospitare Dio; infatti, Gesù è venuto fra noi e ci ha parlato di Dio con un corpo come il nostro.
Al versetto 18 ecco poi spiegato lo scopo, il fine di questa in-carnazione: “… nessuno ha mai visto Dio, ma il Figlio unigenito… che è nel seno (kolpos) del Padre… lo ha spiegato (exeghésanto)”. Intanto il termine kolpos indica quella specie di sacca che si foma in una tunica quando la si indossa con una cintura ben stretta in vita, era il posto dove gli ebrei, ma non solo, custodivano le cose importanti, ma indica anche lo spazio del corpo fra le braccia, dove stringiamo le persone nel momento di un abbraccio. È un luogo importante, quasi sacro dove permettiamo di rimanere solo alle persone e alle cose più care.
E infine, il verbo, complesso e dai molteplici significati, scelto dall’evangelista per dirci che Gesù ci narrerà, ci spiegherà, ci farà conoscere Dio come realmente è e come noi possiamo capirlo e questo solo lui poteva farlo; infatti, nel termine usato da Giovanni c’è una radice che rimanda, significativamente, all’azione che solo chi ha potere ed influenza può compiere.
Ecco il prologo, il programma secondo Giovanni: Gesù, che è Dio ed ha autorità per farlo, ci aprirà gli occhi allo scopo di mostrarci Dio e trasformare i nostri cuori di pietra in palpitanti e grandiosi cuori di carne.