
Meditiamo sulla Parola – VII Domenica del tempo ordinario anno C
Lc 6,27-38
La pagina evangelica di oggi segue immediatamente quella delle Beatitudini. Siamo sempre nell’ambito del “discorso della pianura”, il cosiddetto “discorso programmatico” del capitolo 6 dell’Evangelo di Luca. Il contenuto teologico di questa sezione è molto denso perché racchiude la fondazione della Chiesa con l’istituzione dei 12 (vv 12-16) e perché enuncia il nocciolo fondamentale del Vangelo, incentrato sul comandamento dell’amore.
Il brano odierno, dunque, messo subito dopo le Beatitudini, ne diventa punto culminante, vetta della Beatitudine. Si tratta di una composizione esortativa che, per l’accuratezza della forma e della struttura, appare proprio, secondo gli studiosi, un “poema didattico dall’impronta sapienziale”.
Il testo è chiaro, limpido; le esortazioni sono semplici, dirette, come la verità. Esse sono espresse, nei primi due versetti, con 4 verbi all’imperativo: “amate – fate del bene – benedite – pregate”; l’oggetto di queste azioni è al plurale, ciò che significa tutti, non alcuni sì e altri no, finanche chi ci fa del male, i “nemici”.
Il tema dominante, messo subito in rilievo, è “amare i nemici”.
L’osservanza pratica del comandamento non è ovvia; proprio per questa difficoltà, si tratta di un “comando” di Gesù; esso non è facoltativo ma è tassativo: o amiamo i nemici o non diventiamo “figli dell’Altissimo” (v. 35). Cristo dice di rispondere al male con la non violenza (“porgere l’altra guancia; cedere anche la tunica; non richiedere il maltolto” vv. 29-30).
Viene indicato un modo diverso di interagire col prossimo, che non significa passività, resa, ma vuol dire fare il possibile affinché il nemico si renda conto del male che sta compiendo. Gesù stesso ne ha dato l’esempio quando, durante la sua Passione, schiaffeggiato da una guardia del sommo sacerdote, gli dice: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23). Gesù chiede ragione di quel gesto e lo fa per aiutare il suo interlocutore a rendersi conto di quello che sta facendo.
La preghiera è il modo per imparare a guardare le cose così come le guarda Dio e per allenarci ad ospitare sentimenti che non ci sono connaturali. Come Dio ama per primo, così anche i credenti devono per primi “fare il bene” a tutti (v. 31). È la “regola d’oro” dell’agire cristiano.
Il “dare” senza sperare la restituzione, il non giudicare, il non condannare, il perdonare, sono atti che possono essere attuati pensando al Dio che Gesù ha rivelato: il Padre che è misericordioso verso tutti, “benigno verso gli ingrati e malvagi” (v. 35).
Ci è richiesto di agire con misericordia; ci sentiremmo già ora investiti dall’«abbondanza traboccante» dell’amore misericordioso di Dio. Non possiamo giudicare, criticare, condannare gli altri perché non ne possiamo avere una “lettura” esaustiva; solamente Dio conosce fino in fondo ognuno e soltanto a Lui spetta il giudizio.
Lo stesso Cristo, sulla croce, ha chiesto al Padre di perdonare i suoi uccisori; e Stefano, il primo testimone di Gesù, mentre moriva lapidato, gridò: «Signore, non imputare loro questo peccato» (Atti 7,55-60).
A noi appare impresa ardua vivere secondo i comandi di Gesù espressi in questo brano evangelico, eppure in ciò consiste la “differenza cristiana” e, con l’aiuto del Signore, è possibile.