Meditiamo sulla Parola – V Domenicva di Quaresima anno C

Nei più antichi manoscritti questo testo manca, poi lungo i secoli vaga come un masso erratico della tradizione evangelica. Dopo un lungo e travagliato migrare solo quando fu riconosciuto nel brano il gesto di indulgenza e misericordia compiuto dal Signore verso l’adultera fu inserito nel vangelo secondo Giovanni al cap.8 vv1.11. Il cap. 8 di Giovanni fa parte della triade cap.7-9, legati tra loro da una continuità narrativa geografica e temporale.

Dal punto di vista geografico, l’azione in tutti e tre si svolge a Gerusalemme, nel tempio, e il tutto è poi incorniciato all’interno della festività delle capanne o Tabernacoli o Sukkot che dura 7 giorni. In Giovanni già dalla fine del cap.7 si nota un clima fortemente surriscaldato, si susseguono diatribe, accuse e insulti tra chi vede in lui un uomo che viene da Dio e chi invece lo accusa di essere un indemoniato che inganna la gente e si conclude con i sinedriti che in disaccordo tra loro se ne tornano alle proprie case. Similmente fa Gesù all’inizio del cap.8 dove si dice che si incamminò verso il monte degli ulivi, dove era solito rifugiarsi in una grotta a dormire quando si trovava a Gerusalemme. Tutti i vangeli ci testimoniano questa prassi di Gesù, in particolare nei giorni che precedono la sua ultima Pasqua, quella della sua passione e morte. La scena si sposta poi nel tempio. Qui il giudaismo con scribi e farisei è radicato fortemente nella Torah, loro sono interpreti zelanti della Legge e hanno sempre contestato a Gesù il suo modo di agire e insegnare perché per loro in contrasto con la tradizione. La folla lo circonda, chi sono? Gente semplice, gli ultimi, gli esclusi che lo avevano seguito per ascoltare. Comincia ad insegnare. Qui è bello notare i movimenti che denotano la figura del maestro: l’andare-sedutosi sotto il portico, (posizione caratteristica del maestro), insegnava che è proprio l’arte del maestro. Alla voce del maestro Gesù, che insegna, si contrappongono le voci aggressive di un gruppo di gente ufficiale, di scribi e farisei. Essi si inseriscono tra la folla per influenzare il giudizio su Gesù, per indebolirlo e screditarlo; cercano di tendergli un trabocchetto, un tranello, vogliono metterlo in contraddizione con la Legge di Dio e, soprattutto, poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. Si avvicinano e lo chiamano “Maestro” con tono di sfida volendo vedere come interpreterà la Legge, di fronte al caso che gli presentano.

Il caso concerne una donna colta in flagrante adulterio. Dice il testo, “conducono” una donna da Gesù. Il verbo greco “ago” significa spingere, per dare l’idea del disprezzo con cui si considera questa donna. Viene posta al centro e intorno gli accusatori. Di questa adultera non sappiamo niente, neanche il nome o se era sposata (il marito è assente ed è strano in quanto secondo la legge col matrimonio la donna diventava una sua proprietà e quindi perché non si presenta?). Inoltre, manca anche l’adultero, secondo la legge entrambi dovevano essere condannati. Per questo peccato la legge è molto dura in quanto l’adulterio è una smentita della volontà di Dio che ha voluto uomo e donna una sola persona nella fedeltà, con amore rinnovato uno all’altro. L’attentato al matrimonio è un attentato all’alleanza con Dio. La donna allora viene posta lì in mezzo come un oggetto, prende cioè il posto di Gesù, perche in effetti il vero imputato è appunto Lui. Gesù è in ginocchio davanti all’adultera, cosa scandalosa, un rabbi inginocchiato davanti ad un’adultera. A Gesù rivolgono la domanda: “Tu che ne dici?”. La risposta di Gesù non è espressa da parole ma è affidata ad un gesto, quello dello scrivere a terra con il suo dito. Gesù non punta il dito verso l’adultera come avremmo fatto noi, ma lo mette giù, non la giudica, non l’accusa. Incalzato dalla richiesta di esprimere la sua opinione, si alza, come farebbe un giudice, per formulare qualcosa con autorevolezza; ecco il punto cruciale, l’attenzione si sposta dall’adultera a chi dovrebbe obbedire al comando di Mosè ed eseguire la condanna, e l’eventuale risposta che loro si attendono da Gesù. Gesù risponde con un’affermazione che contiene un’altra domanda, ribalta l’accusa su di loro. Però Lui vuole salvare anche gli accusatori e vuole far prendere loro coscienza di quello che stanno facendo, e dà loro tempo di guardarsi dentro e lo fa interpellando uno ad uno individualmente: “Chi è senza peccato…” può scagliare la pietra. Questo li fa riflettere sulla loro comune condizione di peccatori. Gesù li sfida proprio su questa loro incapacità di interpretare la legge. Siccome nessuno è immune dal peccato, nessuno può essere capace di eseguire il comando di Mosè, solo Dio è senza peccato e solo lui potrebbe decidere della morte o della vita. Nessuno si deve ergere a giudice del suo prossimo. Detto questo Gesù si china e riprende a scrivere e anche ora non punta il dito contro quella gente. Tutti vanno via, vanno via perché non ripongono fede nella misericordia di Gesù e non potranno rinascere a nuova vita. Restano Gesù e la donna; lei non scappa forse perché per la prima volta si è sentita amata di quell’amore che il marito non le aveva saputo donare. “Rimasero solo loro due, la misera e la misericordia”, dice S.Agostino. Qui la scena cambia, diventa una scena di intimità; ora l’adultera è finalmente restituita alla sua identità di donna, sta davanti a Gesù e può guardarlo negli occhi: ecco l’incontro vero. È la fine di un incubo per la donna, perché i suoi zelanti lapidatori si sono dileguati e perché colui che doveva giudicarla non è seduto come un giudice; poco prima si era chinato di fronte a lei e ora sta in piedi, come il giudice che giustifica e assolve. Un Gesù che non le da insegnamenti morali o sgridate, ma rivolgendosi a lei la chiama “Donna”. Questo termine in Giovanni lo troviamo riferito a Maria nelle nozze di Cana, al cap.19 alla crocifissione. Questo termine riporta l’adultera alla sua dignità di donna, dignità perduta ma restituita grazie dalla misericordia di Dio. Nessuno le aveva rivolto la parola, tutti l’avevano trascinata lì come un oggetto; Gesù invece le rivolge la parola, e le chiede: «Dove sono [i tuoi accusatori]? Nessuno ti ha condannata?» (Gv 8,10). Ed essa rispondendo: «Nessuno, Signore» (Gv 8,11) fa una grande confessione di fede perché Signore si diceva per indicare Dio il cui nome era proibito pronunciare agli ebrei. Colui che si trova di fronte a lei è più di un semplice maestro, «è il Signore», come il discepolo amato confesserà dopo la sua resurrezione (Gv 21,7). Gesù che tra tutti era l’unico che la poteva condannare risponde con “Va” neanch’io ti condanno. Il “Va” esprime la contrapposizione tra una condizione passata e (d’ora in poi) una nuova presente e futura, con l’incontro con la misericordia. Questo segna una linea di frattura tra un passato col peccato e un futuro nuovo dalla prigionia alla libertà. Gesù si presenta all’adultera come il suo sposo che sebbene offeso dal suo tradimento, è più desideroso di restituirle la libertà e la gioia di amarlo piuttosto che farle pagare il prezzo del suo peccato. Il perdono è un atto d’amore di Dio sposo. Il perdono di Dio non è semplice cancellazione del peccato ma è un atto attraverso il quale la persona rinasce come nuova creatura desiderosa e capace di amare Dio con il medesimo amore con cui è amato da Lui. “Il Signore condanna il peccato non l’uomo” dice S.Agostino. La misericordia qui non deve essere intesa come un accondiscendere, approvare il peccato ma come desiderio di Dio di dare all’uomo una nuova direzione di vita, una prospettiva di un nuovo futuro. Misericordia e giustizia, verità e bontà sono evidenti in questo brano. La giustizia non si deve fermare alla legge, sarebbe una somma ingiuria (legge bendata nei tribunali), ma bisogna capire sempre chi è il condannato, la sua storia perché ha sbagliato. Andare oltre la giustizia degli scribi e farisei, e andare all’intenzione del legislatore; dobbiamo spezzare il rapporto delitto-castigo, poiché al delitto deve seguire la misericordia, come fa Dio con noi. Cambiare il modo di effettuare il sacramento di riconciliazione, smettere di fare confessioni come un interrogatorio e con penitenza. Tutti i sacerdoti dovrebbero dire: “Va neanch’io ti condanno”. La chiesa deve dire solo ciò che è male e ciò che è bene ma dove è il peccatore non lo sappiamo, considerare la sua vita forse una vita sfortunata, non sappiamo la sua fragilità, non conosciamo la sua rabbia interiore e le ferite che si porta dietro. Nessuno ha posto fiducia in lui.

Questo è un cammino che ridà speranza. Al verso 15 Gesù dice di non essere venuto a giudicare ma a salvare. Questo è chiamato il vangelo del vangelo, è il succo del vangelo, in quaresima vi è la grande catechesi di pentimento, in cui si deve meditare sull’infinito amore di Dio. Giovanni Paolo II in un messaggio del 2000 ha avuto il coraggio di dire: “Leggendo e meditando la bibbia poco per volta sono riuscito a capire che non vi è giustizia che non contenga misericordia”. La giustizia condanna il male, la misericordia lascia il giudizio del peccatore a Dio e ci rende tutti in una grande solidarietà. Non giudicate e non sarete giudicati. Giustizia e misericordia sono correlate e sono fattori decisivi per un cammino di umanizzazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *