Meditiamo sulla Parola – SS Triunità anno C

Gv 16,12-15

La Trinità è la manifestazione di Dio come comunione. In questo senso è il “mistero” centrale della fede cristiana, l’immagine di Dio rivelata a noi da Gesù. Nella Storia della Salvezza, che ha il suo centro in Cristo, Dio si fa conoscere come Sapienza creatrice, come Parola rivelatrice, come Amore vitale. Celebrare la solennità della Santissima Trinità significa per il credente rispondere al desiderio di conoscere Dio, ma anche rendersi disponibili alla sua rivelazione, disponibili a rendergli testimonianza nella e con la nostra vita. Attraverso le parole di Gesù, Giovanni ci accompagna a intravedere il nostro Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo: un Dio che è intimamente comunione plurale, un Dio che è comunione d’amore, un Dio che nel Figlio si è unito alla nostra umanità e attraverso lo Spirito Santo è costantemente creatore di questa comunione di vita. La festa della Trinità è fissata dalla chiesa la prima domenica dopo la Pentecoste: non è memoriale di un evento della vita di Cristo, ma una confessione e una celebrazione dovuta ai concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381).

In questi versetti, tratti dal Vangelo di Gv (16,12-15), Gesù ritorna sul tema dello Spirito consolatore, descrivendone nuovamente la funzione di testimonianza e di guida alla verità. I versetti del brano precedente parlavano di odio del mondo, di persecuzione, di tristezza (v.6). Gesù “parte” e i discepoli si credono soli, abbandonati. Non c’è soltanto l’esperienza della solitudine di fronte al mondo, ma anche l’esperienza della solitudine di fronte all’apparente silenzio di Dio. Nella tristezza cristiana bisogna sperimentare non solo la solitudine nel mondo ma anche l’apparente solitudine di fronte a Gesù. Gesù aveva detto: “sarete odiati e perseguitati per causa mia” (15,18-21); e poi: “vi cacceranno dalla sinagoga e sarete uccisi” (16,1-4). A Gesù non restava che constatare: “Perché vi ho detto ciò la tristezza ha colmato il vostro cuore” (v. 6). Se non lo ha detto fin dall’inizio era solo perché era con loro e li difendeva dagli attacchi del mondo giudaico. Ora, invece, è giunto il momento del distacco e Gesù deve aiutarli a superare quella tristezza che blocca il dialogo. Neppure osano chiedergli: “Dove vai?”. Eppure, Gesù non può più tacere; deve dire loro la verità; ed è questa: “È bene per voi che io me ne vada” (v. 7). Infatti, solo quando avrà portato a termine il comandamento ricevuto dal Padre, solo quando avrà donato la sua vita e sarà glorificato, potrà mandare loro il Paraclito (difensore). Non possono sfuggire l’odio del mondo e tanto meno quello proprio del popolo, ma ci sarà chi li difenderà, perché egli manderà loro lo Spirito Santo.

Il brano evangelico è tratto dai “discorsi di addio” di Gesù, già più volte incontrati nel tempo di Pasqua, quelli da lui rivolti ai discepoli prima della sua gloriosa passione. Chi parla è il Gesù glorioso del quarto Vangelo, Signore del mondo e della chiesa; ha promesso di non lasciare orfani quanti credono in lui (Gv 14,18: Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi) e perciò di mandare loro lo Spirito Paraclito, avvocato difensore. Gesù, che ha insegnato per anni ai suoi discepoli e che nel quarto Vangelo si attarda a lasciare loro le sue ultime volontà, a un certo punto deve confessare: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (letteralmente: “portarle”). Anche Gesù ha fatto l’esperienza del desiderio di comunicare molte cose ma di rendersi conto che l’altro, gli altri non sono in grado di condividerle, di comprenderle, di portarle dentro di sé. In ogni relazione l’assiduità provoca una crescita di conoscenza, l’ascolto e le parole scambiate permettono una maggior comunicazione con l’altro, ma a volte ci si trova di fronte a dei limiti che non si possono oltrepassare. L’altro non può comprendere, non può accogliere ciò che si dice, e addirittura comunicargli delle verità può diventare imprudente, a volte non opportuno: non si può né si deve comunicare di più… incapacità di ricezione da parte dei discepoli. Gesù getta lo sguardo sul tempo dopo di sé, con fede-fiducia e con speranza: Gv 7,13 “Oggi non capite, ma domani capirete”. Perché vivendo si arriva a capire ciò che abbiamo semplicemente ascoltato; che è con quelli con cui camminiamo che si comprendono più profondamente le parole affidateci. Gregorio Magno: “la parola cresce con chi la ascolta”, con chi la scambia con altri, con chi la medita insieme ad altri, con chi sa ascoltare la vita, gli eventi, la storia. Il cammino della conoscenza non è mai finito, l’itinerario verso la verità non ha un termine qui sulla terra, perché solo nel faccia a faccia con Dio conosceremo pienamente (1Cor 13,12: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”). La nostra fede non è statica, non ci è data una volta per tutte come un tesoro da conservare gelosamente, ma è come un dono che cresce nelle nostre mani. Dicendo queste parole, Gesù intravedeva tra i suoi discepoli il pericolo del voler conservare ciò che avevano conosciuto come uno scrigno chiuso invece di permettere alle sue parole di percorrere le strade del mondo e i secoli della storia crescendo, arricchendosi nell’incontro con altre parole, storie, culture. Ma questa crescita della comprensione non avviene per energie che sono in noi, non è un’avventura dello spirito umano, ma è un cammino “guidato” dal dono del Risorto, lo Spirito santo: Gv 14,16 “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità”. Abbiamo una guida nel tempo in cui Gesù non è più tra di noi allo stesso modo in cui camminava accanto ai suoi sulle strade della Palestina. Siamo sulle strade del mondo, tra le genti, come “viandanti e pellegrini” (Eb 11,13: “essere stranieri e pellegrini sopra la terra”; 1Pt 2,11: “Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini”): non siamo soli, orfani, senza orientamento. Ecco il dono di Gesù risorto, lo Spirito santo, “suo compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea), che ora è divenuto il nostro compagno inseparabile. Lo Spirito è luce, è forza, è consolazione, e ci guida: dolce luce quando è notte, brezza che rinfresca nella calura, forza che sostiene nella debolezza. Questa comprensione non sta all’interno di una dimensione intellettuale, ma è conoscenza di cui fa esperienza tutta la nostra persona; e la verità che cerchiamo e inseguiamo non è una dottrina, non sono formule o idee, ma è una persona, è Gesù Cristo che ha detto: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Quando lo Spirito ci parla di Gesù, è come se ci parlasse Gesù stesso, e in questo modo ci parla di Dio, perché dopo la resurrezione non si può più parlare di Dio senza guardare e conoscere Gesù suo Figlio che lo ha raccontato con parole d’uomo e con la sua vita umanissima: (Gv 1,18: Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato). Le parole di Gesù sullo Spirito Santo ci indicano il Padre, Dio, perché il Padre e il Figlio hanno tutto in comune: il Figlio è la Parola emessa dal Padre e lo Spirito è il Soffio di Dio che consente di emettere la Parola. È in questo modo che Giovanni, attraverso le parole di Gesù, ci accompagna a intravedere il nostro Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo. Un Dio che sta “al di sopra”, è il Padre, il Padre nostro, un Padre tenero, misericordioso, rispettoso della libertà dei propri figli. Sempre pronto ad accogliere il prodigo. Sempre disposto a perdonare. Un Dio che, in Gesù, ha assunto un volto umano, fraterno, un Dio che è “attorno” a noi, nostro fratello, “Ho avuto fame…”. E un Dio nella dimensione interiore, nelle profondità del nostro essere; Dio è “dentro” di noi. “Dio mi è più intimo di quanto lo sia io a me stesso” (sant’Agostino). Il cristiano che crede nella Trinità, si sforza di vivere questo mistero rigettando ogni egoismo, ogni ripiegamento su se stesso. Diventa l’immagine autentica di un Dio che è “comunità”, relazione, comunione di Persone. Imprimendo su di noi il segno della croce, diciamo il nostro desiderio e impegno di credere con la mente, con il cuore e con le braccia, cioè con quanto operiamo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

 

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