
Meditiamo sulla Parola – XXVII domenica del tempo ordinario – anno C
Lc 17,5-10
La pagina evangelica di questa domenica inizia con una richiesta insolita che gli apostoli rivolgono a Gesù: “Accresci la nostra fede!”.
Questa domanda ci invita a riflettere su un tema fondamentale, ossia la nostra fede, se abbiamo fiducia in Dio. Tuttavia, la domanda è posta dagli apostoli in modo da condurre il discorso sulla fede a una logica di tipo quantitativo, quasi come se gli apostoli chiedessero a Gesù di aiutarli a diventare dei giganti della fede.
La risposta di Gesù riconduce il tema su un binario diverso: la fede non è questione di quantità, bensì di qualità, come sottolinea il riferimento al (piccolo) granello di senape. Anche una fede piccola, dice Gesù, è in grado di sradicare un gelso, considerato un albero molto difficile da sradicare, in quanto sviluppa radici molto profonde, ben salde nel terreno. Si potrebbe dire, quindi, che il contrario della fede è un pensiero – e un conseguente atteggiamento –granitico e statico, fondato su convinzioni e idee che non siamo disposti a “sradicare” da noi stessi.
Per contro, la fede richiede un atteggiamento aperto e dinamico. Fede significa rinunciare a fare affidamento solo su se stessi, mettendo al centro Cristo e la sua parola. Fede significa aderire a una relazione, seguire Gesù e fidarsi della sua parola. Se confidiamo solo in noi stessi, siamo portati ad accampare meriti dinanzi a Dio, come fa il fariseo al tempio (Lc 18,10-14).
Più che una fede grande o piccola, ci è richiesta una fede autentica, basata sulla scelta continuamente rinnovata di credere. La fede autentica trasforma la vita, è dono e, al contempo, richiede responsabilità. La vita di fede è una vita attiva, alla sequela di Cristo e al servizio della parola.
E Gesù trasmette questo chiaro messaggio agli apostoli con il breve racconto del padrone e dello schiavo. Lo schiavo, quando ritorna dal lavoro, deve subito preparare la cena al suo padrone, il quale non lo ringrazia per aver svolto il suo lavoro. Gli apostoli, inviati a lavorare nella vigna del Signore, non devono attendersi ringraziamenti, essendo “servi inutili” (“a tempo pieno”, come sottolineava Don Tonino Bello).
Ma, attenzione, a interpretare correttamente il termine “inutile”, che va, infatti, inteso quale sinonimo di “senza un utile”, ossia senza pretese. Se il nostro servizio è condotto con l’aspettativa di ricevere un premio, un riconoscimento, una gratificazione, non è fondato sull’affidarsi a Dio. Se Gesù sta tra gli uomini come colui che serve (Lc 22,27), il nostro servizio gratuito, che non attende ricompense, ci rende simili a lui e concretamente esprime il nostro affidarci, il nostro porci alla sua sequela. La fede non è basata sulla logica del do ut des, che ridurrebbe il rapporto con Dio a un accumulare meriti da cui, poi, deriverebbe la giusta ricompensa. Eppure, si tratta di una mentalità molto diffusa al tempo di Gesù e anche oggi, che rischia di “mercificare” il rapporto con Dio. La stessa preghiera, se frutto di questa mentalità, si traduce in una serie di richieste che facciamo al Signore; e ciò ci rende incapaci di ascoltarlo. Essere servi inutili ci libera anche dall’idea che noi siamo indispensabili, quasi come se tutto dipendesse dal nostro agire, e ci consente di elevare il canto del salmo 131:
Signore, il mio cuore non si esalta
i miei occhi non guardano troppo in alto
non vado in cerca di cose grandi
di grandi azioni al di là delle mie forze.
No, io raffreno il mio cuore nella quiete e nel silenzio
come un bambino svezzato in braccio a sua madre
in me è tranquillo il mio cuore.