Meditiamo sulla Parola – III Domenica di Pasqua anno A

La pagina evangelica traccia un vero itinerario di maturazione umana. Il racconto di Emmaus si svolge per intero lungo la strada che va da Gerusalemme ad Emmaus. Tutto avviene in movimento. Il Maestro si avvicina ai due che camminano. Li raggiunge, partecipa ai loro discorsi. “Che sono questi discorsi che state facendo tra voi, camminando?”

Nei primi secoli Cristo viene chiamato la “via-hodos”, i discepoli “quelli della via”. Pietro chiama i cristiani stranieri e pellegrini cioè gente nomade, non sedentaria.

Il Nuovo Testamento ama delineare l’assemblea liturgica come sinodo, come cammino da fare insieme. L’uso recente di portare l’altare al centro con l’assemblea radunata attorno, sembra voler chiudere la chiesa su se stessa. Il Signore sta sempre davanti alla sua Chiesa, la precede, la chiama a fare comunione. Dice Camus: “Non camminare dietro di me, non saprei dove condurti. Cammina al mio fianco e saremo sempre amici”.

Nella liturgia odierna, tutto sembra orientato all’emotività. Centrale invece deve essere l’appello ad uscire da sé per ascoltare la Parola di Dio. Come nell’Esodo, bisogna passare dalla condizione di rassegnazione a una condizione di liberazione.

Attualmente, uno dei maggiori errori, è ridurre la liturgia a rito, un rito che non ha niente a che fare con la vita dei partecipanti. La liturgia cristiana, invece, deve scuotere. Una liturgia credibile prende in considerazione chi vive nel dubbio, nell’inquietudine, nell’oscurità. Bisogna evitare celebrazioni troppo festanti, al limite del superficiale. Non si deve far festa sempre, ad ogni costo. Si registra la nostra poca fede, non è “apistia”, (mancanza di fede) e neppure “oligopistia” (poca fede), ma si tratta di astenia cioè di fiacchezza nella fede.

I due di Emmaus si fermano con il volto triste. Bisogna non dimenticare che non è richiesta una fede grande, ma una fede lunga. Gesù non mantiene le distanze, ma si avvicina, cammina con loro, si fa prossimo, solo in un secondo momento si fa riconoscere.

San Girolamo mette in guardia da ogni forma di verbalismo: “Sermo silens et silentium loquens” ossia parola silenziosa e silenzio eloquente. Un’opera d’arte non ha bisogno di didascalie, è eloquente di per sé. Nella prima fase del viaggio c’è una discussione, uno scambio di vedute e di interpretazione dei fatti. Segue lo spazio per le domande. Il Maestro non si impone, ascolta, entra nella storia di ciascuno. Ascolta fino a sembrare uno che non sa: “Non sai ciò che è accaduto in questi giorni?”

Tutto si apre: le scritture, gli occhi, la mente. “Resta con noi perché si fa sera”. Lo straniero diventa ospite. I discepoli, nel tempo trascorso insieme con Gesù, almeno una cosa l’hanno imparata: l’ospitalità. Gregorio Magno: “Miei cari amate l’ospitalità e le opere ispirate dall’amore”.

Le Scritture hanno senso perché il Risorto le apre; Luca, fine scrittore, non dice: “Mentre spiega la Scrittura”, ma: “Mentre apre la Scrittura”.

La frazione del pane è il gesto massimo dell’ospitalità. “Sparì dalla loro vista”. L’Eucarestia ha il compito di creare spazi. Il centurione: “Signore io non sono degno che Tu entri sotto il mio tetto”. L’indegnità non sta nel partecipare alla sua tavola, è lui che invita. Ma si è indegni perché lo si accoglie in modo inadeguato. La santità non dice distanza, ma prossimità.

Il ritrovarsi la domenica come incontro con il Signore non è una possibilità, non è un precetto che si impone, ma una necessità, una esigenza.

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